Navi dei veleni, «lista al ministero»


Una lista ufficiale di almeno 90 navi tossiche è custodita nei ministeri italiani. Una lista che potrebbe allungarsi, raddoppiando: «Ufficiosamente potrebbero essere 180». Un caso chiuso solo per la stampa e per i calabresi che un anno fa chiedevano la verità su almeno una di queste navi, la Cunski. Un caso che oggi si riapre, con le rivelazioni di un investigatore italiano, membro di un gruppo di esperti – circa una decina – che dalla sede romana di un ministero segue da tempo la storia infinita della navi a perdere. La fonte ha solo un nome in codice, Enrico, e la sua identità rimarrà coperta. Perché ha paura Enrico, e quando ha parlato con due giornalisti tedeschi, nel gennaio dello scorso anno, ha chiesto esplicitamente garanzie di anonimato.
È la storia pubblicata a metà settembre in un libro uscito in Germania, con un titolo programmatico, Il baro. La storia di Enrico è stata raccolta dal giornalista Rainer Nübel, che insieme a un collega – sempre tedesco – ha incontrato l’investigatore italiano a Roma. Nübel – che ha una vasta esperienza di inchieste su terrorismo, mafia e corruzione – ha confermato al manifesto l’intera storia e l’attendibilità della fonte. «È un’indagine che lo ha condotto a un cartello europeo di trafficanti di rifiuti tossici – racconta – che comprende imprese di molti paesi, come Germania, Olanda, Belgio, Francia, Austria, Svizzera e Spagna». È il network dei veleni che utilizza il nostro paese e il Mar Mediterraneo con una doppia funzione: piattaforma logistica e discarica.
Quando i due giornalisti tedeschi hanno incontrato Enrico nella sua stanza, in un ministero romano, hanno chiesto notizie delle 40 navi sparite, nominate nelle inchieste degli anni ’90. La risposta del funzionario italiano è stata sorprendente: «Enrico scuote la testa. Apre un cassetto della sua scrivania – si legge nel racconto di Reiner Nübel – e tira fuori un pacco di carte: “L’elenco ufficiale con cui lavoriamo, è di 90 navi – ufficiosamente è di 180″». Nessun dubbio, nessun tentennamento, racconta.
L’ultimo viaggio
La prima lista delle navi a perdere era stata ricostruita dal capitano di corvetta Natale De Grazia, morto – probabilmente avvelenato – il 13 dicembre del 1995. L’ultimo viaggio aveva come meta Marina di Carrara e La Spezia. Era sulle tracce di una delle navi affondate in maniera sospetta, il cargo Rigel, sparito nel 1987 al largo di Capo Spartivento, il mare compreso tra la Calabria e la Sicilia. Prima di partire De Grazia aveva chiamato il magistrato Nicola Maria Pace: «Dottore, al mio ritorno la porterò sul punto esatto dell’affondamento della Rigel».
Il mestiere di De Grazia era il mare, che aveva imparato a rispettare fin da bambino. Poi quell’inchiesta che lo aveva preso completamente, quasi una scommessa con la sua terra calabrese e con il mare che guardava ogni mattina dal suo ufficio a Reggio Calabria, gli ha aperto le porte sul quel fitto intreccio tra finanza svizzera e società offshore, struttura portante dei traffici di armi e rifiuti.
Le indagini sparite
Con la morte di De Grazia le indagini si sono fermate. Poco dopo la Dda di Reggio – con il pm Cisterna – decide di archiviare tutto. Nessuno era in grado di andare a verificare se le navi esistono realmente, i costi sono altissimi. E se non c’è il corpo del reato, è difficile che vi possa essere un imputato, un processo. E oggi, quando il governo Berlusconi decide di riavviare il programma nucleare, senza spiegare come verranno gestite le scorie, riaprire il capitolo dei traffici verso l’Africa, la Somalia, o degli affondamenti sospetti nel Mediterraneo è una sorta di diktat da rispettare.
Il ritrovamento di un relitto al largo di Cetraro lo scorso anno aveva però riaperto la questione. Secondo il governo nelle acque calabresi c’è un innocuo relitto di un piroscafo, affondato da un sottomarino tedesco nel 1917. Nessun veleno, dunque, nel mare di Calabria. A fine ottobre il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo e il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso annunciarono che «il caso è chiuso». È proprio così?
Già durante i quarantacinque giorni che passarono tra la scoperta del relitto e la verità del governo circolarono almeno due liste ufficiali di navi affondate. Secondo la ricostruzione del quotidiano Calabria Ora – mai smentito – il responsabile dei servizi d’informazione avrebbe parlato durante una riunione del Copasir – il comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti – di almeno una cinquantina di navi. Poi la Direzione Distrettuale Marittima di Reggio Calabria consegnò alla commissione antimafia una seconda lista di quaranta relitti presenti in mare: navi da guerra, ma anche affondamenti recenti, mai completamente spiegati.
L’intervista con l’investigatore avviene dopo la chiusura ufficiale del caso da parte del ministero e, dunque, potrebbe riaprire l’intera vicenda. Se poi anche il numero dei relitti dovesse essere considerato ufficiale, la storia delle navi a perdere apparirebbe per quello che è, il principale scandalo ambientale europeo. Ed è proprio la dimensione transnazionale, confermata dalle rivelazioni della fonte, a colpire e, probabilmente, a spiegare anche gli ostacoli che fino a oggi hanno bloccato tutte le indagini. È una rete potente, criminale, ma con l’aspetto dell’economia giudicata come rispettabile, affidabile. Un network dove dietro si nascondono le grandi marche dell’industria europea, che per decenni – e in parte ancora oggi – hanno utilizzato i canali a buon mercato dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici.
Il ministero: nessun veleno
Ieri il manifesto ha chiesto un commento ufficiale al ministro Stefania Prestigiacomo, con una domanda semplice e diretta: conferma o smentisce l’esistenza di una lista di almeno 90 navi a perdere? Dopo qualche ora la risposta del portavoce del ministro Prestigiacomo è stata lapidaria: «Al ministero dell’Ambiente non risulta alcuna lista né ufficiale né ufficiosa di navi dei veleni». Non una parola di più.
Per capire come questa sia solo una verità apparente basta mettere in fila i tanti dubbi che ancora rimangono sulla gestione del problema da parte del dicastero guidato dalla Prestigiacomo. Se il caso è chiuso, ad esempio, perché la Dda di Catanzaro non procede all’archiviazione e, dunque, alla restituzione degli atti alla Procura di Paola? I dati delle analisi dei sedimenti realizzate durante la missione della Mare Oceano non sono mai stati mai divulgati: perché? E, infine, che fine hanno fatto le analisi dell’Arpacal che nel 2006 rivelarono la presenza di metalli pesanti e di cobalto nelle acque di Cetraro? Domande che sono state poste più volte al ministro Prestigiacomo e che ancora non hanno una risposta.
Andrea Palladino
il manifesto, 1 ottobre 2010

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