I veleni di Ceprano


C’è la collina, che sale verso le grotte di Pastena. C’è il fiume Sacco, che taglia la lunga valle che nasce a Colleferro, per scendere nella terra di Ciociaria. Ci sono i pochi allevamenti rimasti, qualche cavallo, qualche decina di pecore. E poi, a Ceprano, ci sono gli spettri di un passato fatto di industrie pagate dallo stato e condotte da capitani di finanza che oggi hanno chiuso il loro tesoro in Lussemburgo, dopo aver licenziato migliaia di persone. Benvenuti nella provincia dimenticata di Frosinone, antica terra regno di Andreotti, della democrazia cristiana, e del fascistissimo Ciarrapico, degli aiuti di stato all’industria, dei clientelismi. E oggi terra di veleni desolata, abbandonata, con uno dei più alti indici di disoccupazione del centro Italia, dove a distanza di decenni si stanno scoprendo i frutti più avvelenati della prima repubblica.

Sulle sponde del fiume Sacco appaiono i tetti grigi dell’industria storica di Ceprano, la Olivieri. Più di 40 mila metri quadrati di capannoni, oggi abbandonati. “Qui fabbricavano le marmitte delle automobili – racconta il sindaco Renato Russo, medico – era la nostra fabbrica, dove lavoravano i nostri cittadini”. Una sorta di piccola Fiat della città, costruita nel 1967 da un imprenditore beneventano che qui tutti chiamano “il professore”, Aldo Olivieri. Dalle marmitte si è poi passati alle caldaie a pellet, per infine, nel 2008, chiudere tutto. Mobilità, cassa integrazione e licenziamenti.

La famiglia Olivieri – oggi è il figlio Luigi a condurre le aziende di famiglia – ha preferito investire nel nuovo business delle energie rinnovabili, che sa tanto di ecologico e verde, entrando in società con uno dei tanti re della monnezza italiani, Pietro Colucci. E così l’enorme parco industriale di Ceprano è stato messo in vendita, anche se da queste parti di industriali con voglia di investire non se ne vedono più da tempo.

I capannoni della Olivieri sull’argine di fiume Sacco sembrano abbandonati da poco. Si ha come la sensazione di una fuga improvvisa. A guardare il cancello semiaperto con una vecchia automobile parcheggiata e abbandonata si ha la sensazione che qualcosa di terribile sia accaduto. Giravano voci in città che facevano temere il peggio: “Si, è vero, si parlava di malattie tra gli operai – conferma qualche sindacalista – ma nulla di concreto, solo chiacchiere”. Finché qualcuno ha iniziato a scavare.

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E’ stato il nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Frosinone ad aprire la prima buca, spaccando il cemento armato del piazzale della fabbrica che guarda verso il fiume. Prima la terra scura, poi odori insopportabili, alla fine i bidoni. Decine di bidoni trovati in poche ore. Solventi, acidi, resti di medicinali. Rifiuti pericolosi, scorie industriali mai utilizzate in quel posto e quindi provenienti da chissà dove. La settimana scorsa le ruspe sono entrate nei capannoni, dove fino a qualche anno fa centinaia di lavoratori facevano i turni davanti alle presse, oggi vendute. Anche qui, spaccando il cemento armato del pavimento, sono emersi altri fusti, fiale, blister di medicinali, sostanze pericolosissime, abbandonate in fosse larghe cinque metri per cinque e poi sigillate con colate di cemento. “Per quantità e tipolologia – ha spiegato la finanza – è un caso unico nella storia del paese”. Perché ora il timore è che l’intera area dell’ex fabbrica Olivieri di Ceprano possa nascondere bidoni di rifiuti tossici, nascosti chissà per quanti anni.

Sul posto da qualche giorno le operazioni di recupero sono condotte dagli uomini del reparto Nbcr dei Vigili del Fuoco di Frosinone. Tute bianche, maschere e container sigillati per stoccare i rifiuti. E l’area industriale, ormai abbandonata, di Ceprano sembra ancora più spettrale. Ed è una lotta contro il tempo, per evitare che quei veleni possano scendere lentamente verso il fiume Sacco, già martoriato dai resti di Ddt delle fabbriche di Colleferro.

Immaginare quei capannoni intrisi di veleni e pieni di operai al lavoro fa accapponare la pelle. “Mentre scavavamo venerdì – raccontano gli uomini della Finanza di Frosinone – ad un certo punto siamo dovuti fuggire, le esalazioni prendevano alla gola, una situazione terribile”. Due volte avvelenati: prima sul luogo del lavoro, dove non potevano parlare, denunciare, far sapere quello che avveniva, perché solo l’idea di perdere il posto di lavoro da queste parti terrorizza più di ogni veleno. Poi nelle case, sulle tavole, quando i prodotti dell’agricoltura locale arrivavano intrisi dei veleni del fiume Sacco, con il latte delle mucche ,che da sempre pascolavano lungo gli argini, contaminato.

Oggi in terra di Ciociaria del sogno industriale degli anni ’60 e ’70 rimangono solo gli scheletri delle fabbriche. Scendendo la via Casilina, la storica consolare che parte da Roma, superato Colleferro sembra di entrare in un museo dell’archeologia industriale. Ex cementifici, fabbriche chimiche, metallurgiche, di componenti elettronici, questo era considerato il distretto industriale del Lazio, servito dalla ferrovia e dell’autostrada del sole. “La Olivieri non è l’unica fabbrica con veleni nascosti – ricorda il sindaco di Ceprano – solo due anni fa, sempre nella mia città, furono trovati altri fusti sotterrati in un altro complesso industriale abbandonato, la Europress”. Società che produceva etichette per i fustini di detersivi, poi fallita. Bonifiche fatte? “La società non c’è più, alla fine chi dovrà pagare la bonifica è lo stato, la comunità”, commenta sconsolato il sindaco di Ceprano. Già, chi pagherà ora il disastro dell’ex industria Olivieri?

La valle del fiume Sacco è stata dichiarata qualche anno fa “sito d’interesse nazionale” dopo la scoperta dell’inquinamento dovuto al lindano, il prodotto base del Ddt. C’è un commissario straordinario – Pierluigi Di Palma – e budget destinato alla bonifica, anche se i tempi, denunciano gli abitanti, sono lentissimi. Ma queste strane fondamenta dell’industria del capitalismo pagato dallo stato per decenni nessuno le aveva neanche immaginate. E a guardare oggi le acque del fiume Sacco viene più di un sospetto che questa storia di veleni e di capitalismo selvaggio non sia finita qui.

Un commento

  1. L essere umano è la peggio bestia… quante volte camminiamo con scarpe fatte da bambini sfruttati e non lo sappiamo, o mangiamo cose avvelenate o contraffatte convinti della loro genuinità magari guardando una bella pubblicità della fiat scaldati da un ottima stufa olivieri… certo scrivere con un IBM non ha prezzo.. ma esiste un qualcosa di onesto e pulito in questo pianeta?

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