Amazzonia, chi brucia la Babele verde


La chiamavano la Babele verde. Migliaia di lingue, di culture, di storie di popoli antichi, annientati dallo sterminio più lungo della storia dell’umanità. Quel che rimane in Amazzonia di quelle culture è ancora oggi un segreto custodito gelosamente. Antichi cammini segnati da simboli tagliano l’intricata ragnatela fluviale. Erano le vie di fuga degli indigeni, coordinate tramandate oralmente, nascoste nelle «Historias de antigamente», nei racconti antichi.

Oggi, come ieri, quella Babele prende fuoco. Decine di migliaia di ettari, un’estensione paragonabile a quella di uno stato. E’ il polmone del mondo, vero. E’ la riserva che ci ha permesso per decenni di ignorare il cambiamento climatico. E’, ancora oggi, il luogo dove il mistero della vita, la biodiversità essenza della Terra, è custodita. Una Babele genetica, che poco conosciamo, che ospita il 10% della biodiversità del pianeta. Ed è, soprattutto, lo specchio dove il modello del dominio predatorio occidentale mostra tutta la sua profonda crudeltà.

La teoria del dominio

«Integrar para não entregar». Integrare per non consegnare queste terra ad altri, era lo slogan dei militari brasiliani negli anni ‘70, quando ha inizio l’ultima fase del dominio colonialista sull’Amazzonia. La dottrina militare brasiliana – sostenuta da sempre dalla classe imprenditoriale a capo dell’agricoltura intensiva e dalle imprese minerarie – non ha mai abbandonato questa visione di dominio. Prima di tutto territoriale, ideologica, ma con una spinta economica predatoria.

Ci sono voluti almeno due decenni per conquistare un governo realmente democratico – e non espressione delle oligarchie rurali, eredi del colonialismo – in Brasile. Lula è stato prima di tutto il simbolo dell’affrancamento dalla teoria del dominio della casta militare ed economica. Questa era, in fondo, la scommessa del Pt. Ora con la presidenza di Bolsonaro l’oligarchia ha ripreso completamente in mano il potere. E, oggi come allora, l’Amazzonia torna ad essere frontiera, terra di conquista, preda.

«L’Amazzonia è prima di tutto un grande vuoto di popolazione», continua a ripetere il generale in pensione Maynard Santa Rosa. La foresta viene descritta come un «mega latifondo improduttivo, utilizzato solo come moneta di scambio con le elités globaliste straniere». E per capire il metodo di governo proposto, i generali che appoggiano Bolsonaro parlano di una «profonda revisione costituzionale, preparata con una campagna psicologica». Santa Rosa per anni è stato a capo della segreteria strategica del Ministero della difesa brasiliana. Nel 2007 fu rimosso da quell’incarico dal presidente Lula, perché si era opposto apertamente al riconoscimento dell’area indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima. Nel 2010 viene esonerato dopo la sua presa di posizione contro la «commissione della verità», il gruppo incaricato di studiare i crimini commessi dai militari dopo il golpe del 1964. Oggi Bolsonaro lo ha messo a capo della segreteria per gli affari strategici della presidenza della Repubblica, posto chiave con il compito di elaborare i progetti a medio e lungo termine.

Santa Rosa non ha perso tempo. Pochi giorni dopo l’incarico ha messo nero su bianco il progetto «Barão do Rio Branco»: costruzione di una centrale idroelettrica da 3 mila MW sul rio Trombetas, nel cuore della foresta, realizzazione di una strada fino alla frontiera con il Suriname che taglierà da sud a nord il bacino amazzonico con realizzazione di un ponte sul Rio delle Amazzoni e il lancio di un polo di sviluppo dove oggi c’è solo foresta primaria. Idee nuove? Assolutamente no. Lo stesso schema era stato utilizzato tra gli anni ‘70 e ‘80 dalle giunte militari in una zona più ad ovest, a nord di Manaus: costruzione di una centrale idroelettrica (Balbinas), apertura di una strada (la BR 174, che porta alla frontiera con il Venezuela) e lo sviluppo di attività di estrazione mineraria. Fu un disastro, uno delle principali ferite per la foresta.

I primi nemici dell’Amazzonia

Strade, miniere e sfruttamento delle risorse naturali. E’ il triangolo che compone la dottrina militare sull’Amazzonia. Il piano delle «rodovias» nel bacino amazzonico faceva parte del «Programa de Integração Nacional», firmato dal presidente militare Emilio Medici nel giugno del 1970. Tre anni prima era stata avviata la zona franca di Manaus, una enclave di produzione e commercializzazione industriale nel cuore dell’Amazzonia. Una delle prime strade aperte fu la BR 174, che partendo da Manaus raggiunge il confine con il Venezuela. Nel decreto del 1970 si citavano poi altre due strade, la Transamazzonica e la Cuiabà-Santarem. Non si trattava solo di aprire le strade: una fascia di 20 chilometri (dieci per parte) lungo tutto il percorso delle «rodovias» doveva essere destinata alla riforma agraria, permettendo l’insediamento di coloni provenienti dal Nordest, la zona del Brasile dove erano sempre più evidenti i focolai di tensione sociale, legati proprio a conflitti di terra con i latifondisti. La mancata riforma agraria ereditata dal periodo della dittatura è chiara analizzando i dati della distribuzione delle terre nel 1985, ultimo anno delle giunte militari: l’83% degli immobili rurali con una estensione inferiore ai 100 ettari rappresentava il 14,4% dell’area disponibile; le aree con una superficie superiore ai 100 ettari erano il 16,4% delle proprietà, ma con l’85,6% della terra (dati Incra, 1985). Nel contempo aumentava esponenzialmente il tasso di conflitto violento nelle aree agricole: nel 1983 vi furono 315 casi, con 48 morti e 38 mila famiglie coinvolte; nel 1985, alla fine della dittatura, il numero dei casi era raddoppiato, con il coinvolgimento di 118 mila famiglie e 105 persone assassinate (Dati CPT nazionale, 1985).

I militari risolvevano, così, due questioni: evitare la vera riforma agraria – ovvero la distribuzione delle terre nelle zone agricole del Nordest – tutelando i latifondisti e occupare fisicamente l’area amazzonica. A che servivano i coloni nella foresta? Prima di tutto a disboscare, a basso costo. Poi ad occupare aree tradizionali delle popolazioni indigene. E, infine, ad aprire il cammino ai latifondisti, pronti ad entrare in azione quando la follia della colonizzazione della foresta diventava evidente.

Dal 1970 migliaia di coloni sradicati dal Nordest arrivano nella foresta. Molti moriranno. Tanti emigreranno nelle periferie delle città che esplodono. Come Manaus, passata dalla definizione di «Parigi dei Tropici» ad una delle metropoli più violente del mondo, dove oggi si contendono il territorio i cartelli dei narcos. Nascono città nel nulla, come Humaitá, 50 mila abitanti, cresciuta attorno al tratto della Transamazzonica che percorre la zona sud dello stato di Amazonas, ed oggi uno dei centri più colpiti dal fronte degli incendi. Non è un caso, come vedremo, perché il cerino che ha acceso le fiamme è nascosto nella storia del dominio predatorio verso la foresta. Un fuoco alimentato dalla dottrina militare dello slogan «Integrar para não entregar».

Dopo la fine della dittatura militare il modello predatorio non lascerà l’Amazzonia. Dagli anni ’80 ad oggi la situazione si è aggravata. Con un nuovo nemico, globale: l’agroindustria e la soia.

Prima parte (segue)

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